Una delle cose che ho sempre amato di Alice era quella sua capacità di celare universi complessi dietro a espressioni di disarmante semplicità.
Un sopracciglio che improvvisamente si alzava in modo interrogativo. Oppure quello sguardo ironico che accompagnava un “sine”, o un “none”. Questo e quel costante senso di velata malinconia che la avvolgeva ogni tanto.
Sembra un discorso banale della domenica mattina. Ma lo sarebbe di più parlare della metafisica gotica e di Edgar Allan Poe?
C’era negli occhi di Alice un senso di trasparenza, di semplicità, di linearità minimale che mi catturava e affascinava.
Una sola vita e tanti differenti piani di sensibilità. Universi non paralleli ma, piuttosto, convergenti. Sentieri che collegavano il suo mondo a volte fluttuante, a volte reale, al mio.
Esperienze che talvolta determinavano un’intersezione. Un punto di fuga dal quale partivano le mie fantasie più sfrenate, i sogni impossibili e le incertezze. Quelle che compromettevano la mia percezione del vero, o della verità.
Alice risiedeva in ciascuno di questi mondi. In ogni realtà possibile. In ogni fantasia. Era lei la mia personale raffigurazione dell’ordine, della bellezza e della disciplina. E il suo sorriso sconfinava spesso in un atto di fede.
Che poi, alla fine, sono sempre i sorrisi la chiave di tutto. Quelli spontanei. Quelli che spuntano al mattino con una buona colazione. E rinascono la sera, davanti a una bella storia.
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