“Non lo so, papà.”
Poi gli ho stretto la mano. Mi sono chiesto come può pensare a me ora? E in che modo dovevo rispondere? Avrei dovuto dirgli “bene”. Ma “bene” è un aggettivo sbagliato che non vuol dire nulla. “Bene” è fuori moda. “Bene” è fuori luogo. “Bene” è una bugia.
“Perché non mi parli mai? Ti sto chiedendo come stai?”
Mi guardava in un modo strano. Il più strano che mi potesse capitare. E io sono rimasto immobile ad ascoltare il suo silenzio dopo il punto interrogativo. Ho temporeggiato. Mi sarò sicuramente accarezzato il mento un paio di volte. Ho giocato a rincorrere con la forchetta le olive nel piatto. Poi l’ho guardato sott’occhio e il suo sguardo era ancora li.
Esistono silenzi che fanno rumore dentro e questo era uno di quei silenzi. Avrei voluto rispondergli da bambino indolente e incazzato che: “Si pa’, che palle sto bene. Mangio, bevo, respiro e mi innamoro di donne sbagliate, perché sono un masochista bugiardo. Sbaglio come se non ci fosse un domani. Scrivo, penso, viaggio, lavoro e faccio molto rumore. Contento?”.
Invece me ne sono rimasto in silenzio. A contare i secondi in un insensato conto alla rovescia. Mentre il criceto di Niki si affannava sulla sua ruota e le mie paure sporcavano le pareti.
Le paure graffiano, le paure lasciano solchi. Le mie non fanno più neanche quello. Sono sospiri che non si fanno nemmeno ascoltare. Intanto le barricate di circostanza cominciano sgretolarsi e la realtà sta chiedendo un armistizio ai sensi.
“Sto meglio quando non penso.”
Lui mi ha sorriso.
“Andrà tutto bene.”
Ho sorriso anche io.
“Si lo so.”
Ma non è vero. Non lo so. Ho detto un’altra bugia. L’abbiamo detta entrambi.
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