C’è luce nella stanza. Non quanta ne basti per leggere un libro, ma abbastanza per restare svegli a palpeggiare pensieri.
La sensazione è strana. Tangibile, ma non descrivibile. Somiglia al timore di perdere quello che non si può avere.
Scrivo. Poi tengo gli occhi chiusi. Li riapro e scrivo ancora. Improvviso un feroce nascondino con i ricordi più belli. Loro sono abili giocatori. Furbi imbonitori. Ma anche generosi e alla fine si lasciano trovare sempre.
Forse dovrei scrivere meno e parlare di più. Avere tempo per tutti e non aver bisogno di nessuno. Non essere troppo geloso e trascorrere meno serate a chiedermi dove cadono le stelle. Anche se siamo quasi in agosto.
Dove cadono le stelle? E soprattutto che fine fanno i calzini?
In fondo sono domande legittime. Magari poco pertinenti, ma legittime. Perchè non ha davvero importanza che io sia, o meno, un freddo meteorite. Non ha importanza che io sia custode, o meno, delle speranze, o degli sguardi sognanti di qualcuno.
Non è importante che io abbia trascorso secoli in questo stesso universo. Da solo. Errante. Oppure fisso nel cielo. Con le altre stelle a disegnare figure mitologiche e punti cardinali.
L’unica cosa che conta, dentro o fuori da questa stanza, è la realtà. Si può essere una stella solo bruciando tutto se stessi, fino a consumarsi. Fino a non essere più. Bisogna farsene una ragione e dedicarsi ai calzini. Quello si che è sempre stato e rimane, un mistero.
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