Un pensiero può essere quantitativamente rilevante, ma qualitativamente ininfluente. Ci pensavo poco fa, mentre la voce meccanica della stazione di Milano annunciava il mio treno. Giusto qualche istante prima che una testa distratta ricontasse tutti i minuti che si nascondono dentro i miei primi quarantacinque anni. Tempo. Alla fine è sempre una questione di tempo. Non lo vedi arrivare, ma lo senti andare via. Ti avvicina e poi allontana dalle persone che ami. E intanto lui cambia le cose intorno. Le modella. Le invecchia. Le modifica. Anche quelle che apparentemente sembrano sempre uguali. E non è soltanto una mera questione di fisica. C’è anche tanta filosofia. Quella consapevole certezza che tutto questo avvenga in modo fastidiosamente costante. Una pensiero disturbato e disturbante. Per il tempo tutto è quasi commestibile. Ti inghiotte. Non è niente, eppure è tutto. Il tempo è il passato. Il tempo è il presente. Il tempo è il futuro. Ammazzare il tempo è qualcosa alla quale mi dedico scrivendo. Uccido il tempo. Lo trafiggo con le figure retoriche. Lo maltratto con i pensieri. Ed è così che in un modo, o nell’altro, mi illudo di poterlo fermare. Magari traghettando la sua anima controcorrente. Abbandonandola oltre lo Stige. Per poi allontanarmi veloce. Remare a ritroso fino a farmi scoppiare il cuore. E ritrovarlo ancora lì, sul salto della cascata, che se la ride dei miei tentativi di combatterlo, di ingannarlo, di abbandonarlo all’inferno.
22 gennaio 2016 alle 6:16 PM |
dici che uccidi il tempo, va bene, ma non solo, a mio parere ne fai buon uso quando lo impieghi a scrivere coma hai fatto qui.
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