Il tempo. Qualcosa comincia a cambiare in modo prepotente. Ruoto le fotografie. Aumento l’enfasi. La domanda è preistorica.
Siamo tutti scontenti di quello che vediamo riflesso al mattino da doverci inventare altre vite, anche se del tutto elettroniche? E io? Sono contento di ciò che vedo?
Scatto un’altra foto. È un monumento antico come il tempo. Scattare vuol dire pensare. Lo metto a fuoco. Enfatizzo i dettagli. Le ombre. Poi ruoto l’immagine come a cercare un contatto col mondo che vedo. La accarezzo con gli occhi lungo i bordi.
Da bambino vedevo i miei disegni roteare mille volte nelle mani di adulti smarriti e disperati. Dunque. Questa è solo l’ultima di milioni di inquadrature e sono passati 49 anni dalla prima sequenza.
I vasi sanguigni che pulsano al battito del cuore sono l’unica cosa che mi separa da questa inutile e contagiosa virtualità. Dall’interno. Né orizzontale, né verticale. Né prima, né poi. Ora.
Guardo le immagini del passato. La sensazione è meravigliosa, perché apre il campo all’incertezza. Avrò fatto bene? Avrò visto giusto? Avrò dato davvero il mio meglio? Se non si passa da queste risposte, nulla è possibile.
Stamattina c’è un sole che non scalda e un viaggio che mi attende. L’ennesimo. Ha un non so che di adolescenziale lo sbucciarsi continuamente le ginocchia e il palmo delle mani.
Eppure vado avanti senza mai calpestare e spingere chi mi precede. Senza mai desiderare di essere un’altra persona.
E se non mi avete ancora capito, allora basta tornare indietro di qualche anno. Buona lettura e buon viaggio.
25 gennaio 2019 alle 9:36 am |
Forse ogni foto è un istante presente, forse ogni “ora” è vedere sé stessi per la prima volta.
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